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La posizione di Netcomm sull’emendamento della Web Tax approvato dalla Commissione Bilancio. Il nuovo sistema è complesso e impatta sull’equità contributiva poiché l’imposta indiretta è applicata alle transazioni e non al reddito prodotto dalle aziende. Ripercussioni anche a livello macroeconomico per il Sistema Paese; è prevedibile un aumento dei costi dei servizi e vi è il rischio di perdere attrattività nei confronti delle imprese straniere. Se l’obiettivo del nuovo tributo è di precludere salti d’imposta in relazione alla fornitura di servizi digitali in Italia, non vi è ragione di applicarlo alle imprese italiane e ai soggetti stabiliti nel nostro Paese

“L’imposta sulle Transazioni Digitali e talune scelte introdotte con la Legge di Bilancio si pongono in contrasto con l’orientamento e i programmi nazionali ed europei di sviluppo economico sul digitale”. Roberto Liscia, Presidente di Netcomm, il Consorzio del Commercio Elettronico Italiano, esprime così la sua perplessità e quella delle aziende rappresentate dal Consorzio in merito all’emendamento in approvazione alla Commissione Bilancio. “Pur esprimendo il nostro disappunto, continua Liscia, è doveroso sottolineare che l’attuale versione dell’emendamento è certamente migliorativa rispetto a quella iniziale e che siamo a favore dell’equità fiscale di tutti i soggetti che operano nell’economia digitale, siano essi italiani e internazionali. Siamo, infatti, fermamente convinti che sia doveroso cercare forme impositive che rispondano a questi requisiti di equità fiscale e che garantiscano pari condizioni e pari opportunità competitive”.

Ciò premesso, la Web Tax prevede l’applicazione di un’imposta del 3% sul valore di ogni singola transazione avente a oggetto la prestazione di servizi effettuati tramite mezzi elettronici, resa nei confronti di imprese italiane nonché alle stabili organizzazioni non residenti nel territorio (fra cui le così dette società OTT), che hanno rivolto il proprio business al nostro Paese fornendo, tra l’altro, servizi indispensabili per il settore digitale.

La portata applicativa della norma è pertanto ampia poiché inserisce una gamma estremamente vasta di servizi digitali che sono divenuti oramai una componente essenziale e imprescindibile per l’economia del nostro Paese e, soprattutto, per l’attività lavorativa (cloud computing, sviluppo software, servizi pubblicitari sul web, e-Learning, ecc..), coinvolgendo numerose imprese.

Un sistema macchinoso, complesso e dunque migliorabile

In primis, si tratta di una imposta indiretta applicata alle transazioni e non al reddito prodotto, che non garantisce equità contributiva; inoltre, il sistema adottato comporta ulteriori oneri amministrativi alle aziende-clienti le quali, agendo come sostituiti di imposta, dovranno effettuare ulteriori adempimenti burocratici. Infine, da un punto di vista cross-border, per le aziende estere che operano anche sul mercato italiano, tale imposta può essere equiparata a una “tassa doganale sui servizi digitali”.

Il meccanismo introdotto potrebbe comportare addirittura una duplice imposizione per le multinazionali e i gruppi, come nel caso di un’azienda che, per esempio, eroga e fattura i propri servizi digitali (i.e. cloud computing) a favore di un’impresa dello stesso gruppo, sulla cui transazione viene applicata l’imposta del 3%. Tale aliquota sarebbe nuovamente applicata nel caso l’impresa-cliente erogasse a sua volta servizi digitali ad altre aziende. È chiaro che in un caso del genere, a livello di gruppo, si avrebbe una doppia tassazione (ovvero 3% sulla prima operazione e 3% sulla seconda) rendendo l’aspetto competitivo discutibile.

Pochi benefici e molte ripercussioni a livello macroeconomico per il Sistema Paese

Una delle prime prevedibili conseguenze della Web Tax è un generale aumento dei costi dei servizi da parte delle imprese che si ripercuoterebbe indirettamente anche sui consumatori finali.

Un ulteriore effetto, forse il più grave, è dato dal fatto che il nostro Paese rischia di diventare sempre meno attrattivo e competitivo per le imprese estere. Come noto, la pressione fiscale in Italia è particolarmente onerosa rispetto agli altri stati membri, situazione che da tempo rappresenta uno dei più grossi limiti per lo sviluppo dell’attività imprenditoriale.

Davvero si sentiva il bisogno di una ulteriore imposta per le imprese italiane applicata a uno dei settori strategici per lo sviluppo del Paese?

Se da un lato negli ultimi anni si stanno compiendo diversi sforzi per allineare l’Italia agli altri Stati europei attraverso l’adozione di una serie di iniziative volte a incentivare lo sviluppo del digitale nazionale e a creare maggiore competitività economica (i.e. piano di sviluppo dell’AgID, l’Agenda digitale italiana, l’erogazione da parte del Ministero dello Sviluppo Economico di un voucher non superiore a 10 mila euro per le PMI italiane che adottano interventi di digitalizzazione dei processi aziendali e di ammodernamento tecnologico – proposta a cui ha collaborato anche Netcomm), dall’altro lato non possiamo rilevare che normative come quella in esame rischiano di vanificare gran parte degli sforzi effettuati. Ha senso riconoscere dei voucher quando poi si impone un’ulteriore imposta?

Infine, relativamente alle PMI e all’inserimento della “salvaguardia” di cui al comma 588 – che prevede l’applicazione dell’aliquota in caso di un numero complessivo di transazioni digitali superiori alle 3.000 unità – si tratta di una misura apparentemente di favore per le piccole imprese e le startup poiché il numero fissato rappresenta un limite facilmente superabile. In ogni caso, su tale aspetto, così come su altri profili strettamente operativi si attendono ulteriori chiarimenti da parte delle autorità competenti (Agenzia delle Entrate e Ministero delle Finanze) poiché si fa riferimento solo al numero delle transazioni e non al valore dell’operazione.

Netcomm ribadisce dunque la necessità da parte del Legislatore nazionale di agire con maggiore cautela e con un approccio olistico a favore del Sistema Paese

“Se da un lato è certamente apprezzabile e condivisibile la volontà di perseguire fenomeni di elusione andando a colpire realtà estere che pur svolgendo attività economica nel nostro Paese non adempiono agli obblighi fiscali, dall’altro lato non possiamo esimerci dal chiedere maggiore coerenza con le politiche di sviluppo nazionali ed europee, miglior supporto alle imprese nazionali e garanzie di equità competitiva con quelle straniere. Ciò è reso possibile anche attraverso un sistema impositivo fiscale equo, sostenibile e basato sul reddito. Proprio per questo motivo siamo contrari a sistemi di imposizione indiretta che, da un punto di vista cross-border, si traducono quasi in dazi doganali, dovendo invece preferire meccanismi di imposizioni basate sul reddito effettivo. Ci aspettiamo pertanto che il Legislatore e le autorità competenti alla normazione secondaria tengano conto di tali esigenze nell’interesse del Sistema Paese”, conclude Liscia.